Ci troviamo una situazione a cui nessuno di noi era preparato, qualcosa che guardavamo nei film dispotici e che relegavamo in quell’area della nostra mente dove ha sede il fantasy, la possibilità di immaginare scenari che sappiamo non potranno mai realmente accadere. Che stanno però accadendo.
“Dal punto di vista psicologico ci troviamo in uno stato di emergenza quando capiamo che la nostra vita, la nostra sopravvivenza, è a rischio, o quando capiamo che è a rischio la vita delle persone a cui vogliamo più bene, il nostro coniuge o i nostri figli”
(APA, 1994).
La percezione di uno stato di emergenza dipende principalmente da due fattori:
1- antecedenti individuali (età, tolleranza allo stress e al dolore fisico, ecc.)
2 – valutazione cognitiva ed emotiva dell’evento e delle risorse disponibili per fronteggiarlo.
Quando ci troviamo in stato di emergenza non ragionavo come di consueto, ma usiamo delle euristiche, cioè dei percorsi semplificati di ragionamento. Uno dei fenomeni a cui stiamo assistendo in questa situazione di Covid-19 è quello della responsabilità diffusa.
Quando siamo in una situazione di pericolo, o vi assistiamo, per agire dobbiamo sentire di non essere sostituibili da qualcun altro e dobbiamo sentirci in grado di fare qualcosa. Altrimenti pensiamo che è sempre qualcun altro quello che deve agire o che dovrebbe agire in un modo diverso. E’ quello a cui assistiamo oggi. Tanti sembrano cercare continuamente la responsabilità dell’altro nella diffusione del contagio (runner, cani, anziani, passeggiate, bambini che giocano all’aperto), invece di focalizzarsi sui propri comportamenti.
Uno dei bias cognitivi in stato di emergenza conduce a ritardare la fuga dal pericolo se ci troviamo in un ambiente familiare. In questo modo, a casa o con i nostri familiari possiamo non avvertire il pericolo. Nella situazione attuale, si traduce in comportamenti di scarsa responsabilità con i propri familiari, che non sono percepiti come fonte di pericolo. Per questo assistiamo ancora a nonni usati come baby sitter, mentre noi andiamo al lavoro, o a pranzi di famiglia clandestini. Non percepiamo la nostre presenza, o quella dei nostri figli, come un rischio per i nostri cari e viceversa.
Il pericolo oggettivo e l’effettiva percezione del rischio possono, infatti, avere connotazioni diverse. Mentre il pericolo è oggettivo, la percezione del rischio è soggettiva e dipende dalla probabilità che attribuisco all’oggetto/evento di essere una fonte di danno per me o i miei cari. Dipende dalla vulnerabilità che mi attribuisco. Quindi, anche se gli esperti valutano il rischio su base statistica e probabilistica, la gente comune valuta il rischio in base all’esperienza e alla cultura condivisa che, a sua volta, si basa sulla difficoltà a tollerare l’incertezza degli effetti del pericolo.
A livello generale, la percezione del rischio risente di 3 fattori:
- FATTORE TECNICO-INFORMATIVO, cioè le informazioni a disposizione delle persone per poter valutare il rischio.
- FATTORE POLITICO, soggetto a strumentalizzazione da parte di singoli o gruppi.
- VALORI DI RIFERIMENTO, identificazione con il punto di vista di persone di riferimento.
Una corretta percezione del rischio dovrebbe essere maggiormente influenzata dal primo fattore. Purtroppo non è così e l’organizzazione delle misure preventive e di contenimento non tiene conto della variabilità delle reazioni umane.
Per questo motivo è pericolosa la mancanza di unità politica, da parte degli esponenti politici di riferimento, in caso di un’emergenza pandemica come quella che stiamo attualmente vivendo. Perché le persone si identificano con il punto di vista di chi considerano autorevoli soggettivamente, anche se non sempre ne sono consapevoli.
Starr, nel 1969, è stato il primo a porsi una domanda fondamentale: “Quali sono le variabili che entrano in gioco e che fanno sì che la popolazione esprima dei giudizi sui rischi difformi da quelli degli esperti?”.
Sono state individuate diverse variabili:
- Familiarità con la situazione.
- Controllo della situazione.
- Gravità ed immediatezza delle conseguenze.
- Principio di equadistribuzione.
- Fonte artificiale o naturale del rischio.
- Numero delle persone esposte.
- Orrore che provoca.
Di questi fattori, quelli che entrano maggiormente in gioco nella situazione di emergenza attuale sono:
1. FAMILIARITA’
I pericoli quotidiani sono ignorabili come se fossero rari e poco probabili. Per questa ragione, in questo periodo vediamo persone accanirsi contro i runner, che potrebbero infortunarsi ed aver bisogno del pronto soccorso, anche se è probabilisticamente più facile farsi male all’interno delle mura domestiche. Non è sentito, invece, altrettanto pericoloso affidare i bambini ai nonni anziani, in quanto è una situazione che rientra nella quotidianità della maggior parte delle persone. Non percepiamo pericolose quelle azioni a cui siamo abituati, come andare a fare la spesa, fermarsi a parlare con il conoscente che incontriamo per strada, far giocare i bambini tra di loro, ecc. E’ lo stesso meccanismo che, in situazioni di normalità, conduce a percepire l’aereo come più pericolo dell’automobile.
2. CONTROLLO DELLA SITUAZIONE
Se sentiamo di poter controllare la situazione (come i fumatori che pensano di poter smettere quando vogliono), apparirà meno rischiosa. Nella situazione attuale, se percepiamo noi stessi come in grado di controllare la possibilità di contagio, anche in situazione di interazione sociale, allora non ci sentiremo in pericolo. Per questo motivo, alcuni dicono che l’uso della mascherina conferisce un falso senso di sicurezza, perché non siamo totalmente protetti, ma la nostra percezione potrebbe essere diversa.
3. IMMEDIATEZZA DELLE CONSEGUENZE
Se il pericolo mostra le sue conseguenze in un lasso di tempo breve, allora la percezione del rischio sarà maggiore. Nelle regioni meno colpite, infatti, il pericolo viene è percepito più lontano, sia nel tempo che nello spazio. Come qualcosa che potrà arrivare, ma ancora non è un rischio reale. E’ quello che ha condotto, probabilmente, gli altri Stati del mondo a non approfittare del vantaggio dato dall’esempio della precedente esperienza italiana.
4. ORRORE CHE PROVOCA
Ogni situazione critica suscita emozioni, più queste si avvicinano a limiti dell’orrore, più aumenta il senso di angoscia e la percezione del rischio. Probabilmente, quello che ha avvicinato le persone ad una più corretta percezione del rischio è l’idea di poter morire in solitudine, o che possa succedere ai propri cari. Si susseguono, infatti, storie di persone che hanno visto per l’ultima volta il loro genitore o nonno, nel momento in cui sono stati lasciati al pronto soccorso, per poi avere notizia della loro morte dovendo anche rinunciare al rito funebre
La percezione del rischio ha, quindi, sia una valenza cognitiva (le informazioni che ho) che una valenza emotiva (le emozioni che mi scatena). L’informazione è una componente fondamentale nel processo di razionalizzazione del problema. Di fronte al pericolo si ricercano informazioni, essere informati ha solitamente un aspetto positivo nella possibilità di controllo dell’ansia, perché essere informati e sapere quali siano i comportamenti da seguire, dà un sensazione di maggiore controllo.
IL PANICO DI MASSA
Abbiamo assistito a situazioni di panico di massa in seguito ad alcuni dei primi decreti restrittivi: fughe notturne verso il sud Italia e accaparramento dei viveri.
Si tratta di un comportamento collettivo in cui le capacità di giudizio e ragionamento sono deteriorate, in cui vi sono forti emozioni di paura e in cui vi è un comportamento che può degenerare in azione auto ed etero distruttive. E’ il risultato dell’incapacità dell’individuo di controllare la propria paura.
E’ favorito da 4 fattori:
- Una precedente situazione di ansietà diffusa
- Mancanza di una leadership autorevole che sappia dare indicazioni chiare
- Percezione di assenza di una via di uscita
- Un fattore precipitante per l’ansia (es. senso di impotenza).
Se si verificano queste quattro condizioni, avremo una reazione di panico.
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