Oggi è il 4 giugno, da ieri il lockdown è finito anche tra le diverse regioni di Italia. Siamo stati quasi due mesi confinati nello spazio più o meno ristretto delle nostre case. Confinati dalle normali relazioni sociali quotidiane.
Papa Francesco ha detto che “Dalle grandi prove dell’umanità, e tra queste la pandemia, si esce meglio o peggio. Non si esce allo stesso modo.” Credo che sia vero, come è vero per tutte le esperienze più o meno traumatiche.
Da psicologa ho avuto modo di osservare il mondo interiore dei miei pazienti durante questo particolare periodo. Con qualcuno ho proseguito le sedute in studio, con altri ho continuato via Skype. Non so se sia dipeso dal fatto che fossero in analisi, ma mi sembra che quasi la totalità dei pazienti sia stata meglio e, in alcuni casi, è stato possibile toccare aspetti interni reconditi che sono solitamente tenuti al riparo dagli eventi e le relazioni della quotidianità.
Ne Il disagio della civiltà (1929) Freud sostiene che il conflitto, a cui assistiamo nella realtà esterna, tra individuo e civiltà corrisponde al conflitto interno alla psiche di ogni persona. Rappresenta il conflitto tra SUPER IO (autorità esterna) ed IO (interessi personali). Questo conflitto genera un senso di colpa inconscio che rappresenta l’origine del “disagio della civiltà”.
L’esperienza relazionale nasce come esperienza del limite. All’inizio della nostra vita, proviamo un senso di onnipotenza, se siamo affamati, abbiamo a disposizione il seno materno che ci allatta, se sentiamo freddo, una coperta ci copre, se avvertiamo disagio per il pannolino sporco, ce lo ritroviamo pulito. Come sottolineato anche da Piaget, il bambino, in questa primissima fase della vita, non distingue tra sé e mondo esterno. E’ una fase in cui siamo caratterizzati da un pensiero magico, ci sentiamo onnipotenti. Finché non scopriamo l’altro, solitamente la madre, e ci accorgiamo che non siamo noi stessi a soddisfare i nostri desideri, non siamo onnipotenti, ma è un oggetto esterno: nostra madre o, in generale, il caregiver. “In tal modo”, scrive Freud, “l’Io si distacca dal mondo esterno, anzi, per essere più esatti, in origine l’Io include tutto, e in seguito, separa da sé il mondo esterno […]”. (p. 561). La scoperta dell’altro, avviene attraverso la frustrazione del bisogno. E’ successo che abbiamo avuto fame e non abbiamo trovato il seno, oppure che, fraintendento, ci è stato cambiato il pannolino, allora abbiamo scoperto che c’era un altro a rispondere al nostro bisogno, da cui dipendevamo.
Possiamo quindi dire che la relazione nasce da una frustrazione e dalla perdita del senso di onnipotenza.
Da questo confino forzato presso la nostra abitazione, dove abbiamo provato anche un senso di frustrazione per la limitazione della nostra libertà personale, ne possiamo uscire anche migliori, così come è migliore il bambino che comincia a distinguere tra sé e mondo esterno.
Se il lockdown non è stato troppo destabilizzante, abbiamo scoperto qualcosa rispetto a noi stessi e la nostra ricerca della felicità. In questo senso, non si può uscire da questa esperienza allo stesso modo. In questa privazione relazionale, abbiamo avuto l’opportunità di capire qualcosa di più rispetto a noi stessi, la nostra vita e le nostre relazioni.
Come dicevo precedentemente, Freud ne Il disagio della civiltà sostiene che il conflitto tra IO e SUPER IO genera senso di colpa. Senso di colpa che è spesso stimolato dalla presenza dell’altro. Per questo, credo, molte persone sono state meglio senza l’incontro con un altro sentito giudicante. In qualche modo, la distanza e lo smart working hanno alleggerito la quotidianità dalla ricerca dell’approvazione e dalla ricerca dello sguardo dell’altro. Persone con una fragile sicurezza di base, si sono scoperte più sicure di sé nella distanza.
Abbiamo anche avuto modo di scoprire di cosa ci possiamo liberare e cosa ci manca nella nostra “normalità”.
Ad esempio, c’è chi si è reso conto di avere legami caratterizzati da “lesa maestà“, cioè quelle relazioni che funzionano solo finché diciamo all’altro quello che si vuole sentire dire. “Amici” a cui non possiamo veramente dire quello che pensiamo, al prezzo di perdere il legame.
Altri hanno avuto l’occasione di rendersi conto quali fossero le persone di cui sentivano la mancanza, scoprendo di avere tante relazioni con persone legate all’opportunismo del fare: con cui andare in palestra, uscire il week end, fare l’aperitivo, ma venendo a mancare la possibilità di “fare”, è venuto a mancare anche il desiderio di incontrarsi.
Abbiamo invece scoperto che qualcuno ci mancava davvero, ed allora siamo ricorsi alle videochiamate, per condividere il momento pur non avendo molto da raccontare.
Abbiamo assistito a lunghe file davanti a colossi dell’arredamento come Ikea, come se avessimo scoperto l’importanza del confort della nostra casa, lo spazio che abitiamo. Uno spazio di cui dobbiamo prenderci cura, così come dobbiamo curare il nostro spazio interno.
In questo senso, da questo lockdown possiamo uscirne migliori, più consapevoli di fragilità, risorse interne e cambiamenti da apportare, in primo luogo, su noi stessi.
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