Il silenzio caratterizza il lavoro dell’analista. È una cosa strana essere uno psicoanalista. L’analista è chiamato ad avere la capacità di vedere sotto la superficie delle persone e di entrare in contatto con quello che sentono e pensano, ad un livello non ancora consapevole per la persona stessa. Spesso, questi pensieri e sentimenti sono troppo complicati per essere espressi a parole da soli, soprattutto quando si tratta di relazioni, traumi ed esperienze passate. Ci vogliono anni di formazione prima di imparare ad aiutare i nostri clienti a capire meglio se stessi, ascoltandoli da vicino senza intervenire con le nostre opinioni o commenti giudicanti.
Bion e il silenzio
Nel seminario numero 19 di Brasilia Bion discute il caso di una paziente silente. E’ una donna di 27 anni, in analisi da 6 mesi. Arriva, si siede sul lettino e non parla. Questa paziente sembra spaventata dal suo stesso silenzio, allora l’analista si chiede cosa porti questa paziente a tacere se poi ne è spaventata.
Se ha ragione Paul Watzlawick con il suo primo assioma della comunicazione, “non si può non comunicare”, che cosa comunica la paziente con il suo silenzio e cosa comunica l’analista? Forse il silenzio permette di mettersi in contatto con un rumore che non è ancora pensiero, una pensiero non ancora pensato.
Recentemente, mentre ero con un paziente che sta spesso in silenzio i primi 15-20 minuti di seduta, mi sono trovata a pensare a come quel silenzio mi costringesse ad una maggiore attenzione, quasi un protendermi in ascolto del paziente. La mia “attenzione fluttuante”, fluttuava meno, come se sentissi di dover cogliere qualcosa oltre quel silenzio. In quel momento, mi sentivo molto in contatto con il mio paziente.
Credo che il silenzio sia un oggetto analitico, in presenza di passione, cioè un legame tra le due menti nella stanza: quella del paziente e quella dell’analista.
Bion, infatti, nel suo libro “Gli elementi della psicoanalisi” definisce la passione come una componente derivata da L, H e K (amore, odio e conoscenza), che si sperimenta con intensità, calore, ma non violenza. La passione non si sperimenta dai sensi, afferma Bion, perché per sperimentare dai sensi, basta una sola mente. Al contrario, “[…] la passione è la prova del fatto che due menti sono legate e che non possono esservi meno di due menti se la passione è presente.”
La passione di Hautmann
Hautmann in “Passione e formazione del Sé” definisce la passione come un’esperienza emotiva stabile e duratura, nella quale “si struttura una forma di formazione del Sé”. Riprende la concezione bioniana di passione, scrivendo che le caratteristiche di intensità e calore, che Bion ha attribuito alla passione, quale elemento costituente dell’oggetto analitico, distinguono gli elementi emotivi e quelli senso-percettivi. Hautmann sottolinea, infatti, come l’intensità sia da intendersi nell’ambito “emotivo-rappresentazionale”, mentre il calore nell’ambito “senso-percettivo”. Secondo Hautmann, è insito nell’esperienza mentale della passione l’intreccio emotivo e senso-percettivo che è coessenziale alla fondazione-rifondazione del Sé. La passione permette un senso di esserci, prosegue Hautmann, che “capovolge la dissoluzione del Sé o la sua non-integrazione e l’angoscia panica che la sottende. La tensione nell’oscillazione precaria tra fondazione e dissoluzione, tra passione e terrore senza nome, comporta dolore mentale.” La passione può quindi fondare il passaggio da mente primitiva a mente separata.
Il traghettatore
Bolognini nel sua articolo sul ferryman scrive “La funzione inizialmente ricettiva dell’analista è uno dei cardini della nostra disciplina: l’analista accoglie le comunicazioni del paziente più o meno nello stesso modo in cui accoglie il paziente nella sua stanza, a cominciare dalla consultazione. Quindi, una volta che la persona è stata accolta rispettosamente e comodamente, gli analisti rimangono davvero in silenzio per un bel po’ di tempo, senza diventare quei paradossali stereotipi muti descritti dai fumettisti. Ciò non mira a suscitare sentimenti persecutori né a far pesare sul paziente un’inaccessibilità narcisistica idealizzata, ma piuttosto a creare spazio, per lasciare che i pensieri e le parole dell’altro trovino – anche in modo inevitabilmente conflittuale – un percorso verso la crescita interna, e successivamente l’espressione . Mi piace chiamare questa l’opportunità dell’analista di creare un vuoto aspirato (trad. mia).”
Il silenzio può quindi accogliere un’area mentale asimbolica con l’obiettivo di trasformarla, nella relazione analitica, in qualcosa di pensabile e, quindi, comunicabile. E’ quello che Hautmann chiama “pellicola di pensiero”, cioè l’organizzarsi e l’integrarsi di quelle diverse aree sensoriali, che portano alla formazione del Sé. In questo senso, il silenzio in analisi, quando sorretto dalla passione del contatto delle due menti, è come un utero che permette il generarsi della pellicola di pensiero.
Quindi, per tornare al seminiario numero 19 di Brasilia, la paziente, quando entra “ha un’espressione raggiante” perché seppur ad un livello inconscio sa che sta, in quel silenzio, accadendo qualcosa. L’analista in una rêverie vede la paziente come una mummy (mummia) egiziana. Qualcosa che segnale l’oscillazione tra qualcosa di mortifero (la mummia) e qualcosa di generativo (la madre). A questo punto, la paziente parla e dice che per lei è sì difficile parlare, ma è ancor più difficile pensare e, quando cerca di farlo, “si sente una cosa morta”. La mummia morta è il pericolo di dissoluzione del Sé e qui Bion dice che “se si ascoltano i silenzi e non soltanto quello che viene detto, allora diventa più facile capire che cosa sta dicendo il silenzio”. L’analista inizialmente non è a suo agio, perché non sta ascoltando il silenzio, non è rilassato, si chiede probabilmente perché la paziente non parli. Viene fuori che la paziente desiderava un bambino, ma era reduce di numerosi aborti. Assume più senso la rêverie dell’analista di una oscillazione tra mamma/mummia. Bion dice che l’analista, in qualche modo, impedisce l’analisi e qualsiasi cosa possa dire l’analista, è qualcosa di sbagliato. Consiglia di provare a restare nel silenzio, anche se questo rischia di accrescere l’ostilità del paziente.
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