In “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” (1920) Freud fornisce una serie di indicazioni perché l’analista non lavori su un piano consapevole e cognitivo, ma su un piano preconscio. La psicoanalisi, infatti, si distingue da tutti gli altri trattamenti terapeutici proprio perché non si prefigge di cambiare l‘aspetto superficiale e consapevole (la punta dell’iceberg), ma tutto ciò che ha permesso l’emergere del sintomo, la struttura profonda (la parte sommersa dell’iceberg). La formazione dell’analista, attraverso la sua analisi didattica, è quindi fondamentale per permettere all’analista di lavorare con la propria parte preconscia.
La parte conscia può, infatti, rendere cieco l’analista di fronte a ciò che è il materiale su cui lavorare, materiale che non arriva dalla parte consapevole e cognitiva del paziente. L’analista deve, quindi, saper sostare nella “non conoscenza” e nella “non comprensione”.
L’ascolto cosciente e la comprensione cognitiva del parlare del paziente è come l’ascolto e la comprensione del significato letterale della metafora. Il valore della metafora non sta in questo tipo di significato, ma al significato altro a cui rimanda.
Sono due, infatti, le regole fondamentali della psicoanalisi, una per il paziente e l’altra per l’analista: rispettivamente le libere associazioni e l’attenzione liberamente fluttuante. Sono queste due regole che rendono possibile il lavorare, in analisi, sugli aspetti preconsci del paziente. La coscienza diventa così permeabile agli aspetti inconsci. ‘Attenzione liberamente fluttuante’ in origine è ‘gleichshwebend aufmerksamkeit’ e scheweben significa fluttuare, ma non una qualsiasi fluttuare, un fluttuare nell’aria come opposto ad un galleggiare nell’acqua (schiwimmen) – una nuvola schwebens mentre una nave shwimmens.
Freud nell’Io e l’Es scrive che l’analista deve “arrendersi all’attività mentale inconscia, mettendosi in uno stato di attenzione fluttuante, per evitare, per quanto possibile, riflessioni e costruzioni di provenienza conscia, senza provare a fissare nei suoi ricordi qualcosa e, da questi significati, capire qualcosa dell’incoscio del paziente attraverso il proprio inconscio” (1923b, p. 239). Freud (1915)chiarisce che soggetto e oggetto non sono mai completamente separati dal momento che il soggetto plasma gli oggetti che percepisce, paragonando la sua epistemologia a quella di Kant e avvertendoci delle intrinseche distorsioni che la coscienza impone all’inconscio. Afferma comunque che gli “oggetti interni” (evidentemente inconsci) sono conoscibili se come strumento di percezione si usa l’inconscio stesso.
Nel suo volume Against understanding, Fink (2014) scrive che ciò che è veramente cruciale per l’esplorazione psicoanalitica dell’inconscio “non è fornire significati, ma mettere in parole l’indicibile. Parlare di ciò che è sempre apparso impronunciabile, impensabile, inaccettabile e/o inimmaginabile per l’analizzando…Dire tutte queste cose non è la stessa cosa del comprenderle, né per l’analizzando né per l’analista…La comprensione – se mai arriva – può aspettare.” (p.8)
Il proprio inconscio è, quindi, il principale strumento dell’analista ed è per questa ragione che è necessario avere la garanzia che l’analista stessa abbia lavorato, trasformato, elaborato i propri contenuti inconsci attraverso una lunga analisi didattica.
L’elemento chiave della psicoanalisi è la centralità dell’inconscio e la particolare ‘tecnica’ richiesta per poterlo ‘conoscere’. Se il sogno è il portavoce dell’inconscio (così come i lapsus, le associazioni libere, la metafora, il mito, e cosi via, che non sono inconscio in sé, ma parlano la sua lingua), allora l’unica strada che ha l’analista è di ascoltare attraverso il suo inconscio.
E’ quel che arriviamo a conoscere inconsciamente che è il cuore della pratica psicoanalitica.
Maurizio Pizzigoni dice
Sono un volontario che, insieme ad altri, conduce un gruppo di acolisti che tentano di sottrarsi alla dipendenza. Dopo un lavoro introduttivo che comprende: informazioni sulla sostanza, sui suoi effetti psicofisici, sostegno da parte del gruppo, esempio di alcolisti che hanno astinenza da etanolo di anni, dopo tutto questo, chi conduce il gruppo con me non fa che appellarsi alla forza di volontà.
Ho fatto una psicoanalisi di gruppo da un’analista SPI in un gruppo dive vi erano anche aspiranti psicanalisti in analisi personale-didattica. Naturalmente, non essendo un analista, non mi metterei certamente a fare il “selvaggio” e a trasformare il gruppo di alcolisti in gruppo di psicoterapia. Però forse, senza affondare il “bisturi” nell’inconscio, forse è possibile dare qualche imput ai partecipanti il gruppo per qualche presa di coscienza di elementi critici presenti nel preconscio. Mettere cioè “una pulce nell’orecchio” dei pazienti allo scopo di spingerli fare spontaneamente un piccolo lavoro su sé stessi per ampliare un po’ e approfondire la loro coscienza. Ci sono esempi del genere in psicoterapia? Ci sono pubblicazioni sull’argomento? Ringrazio anticipatamente e saluto cordialmente.
Ilaria Sarmiento dice
Scusi il ritardo della risposta, purtroppo non mi occupo di gruppi, per cui non le so rispondere. Credo che però un buon modo per “mettere la pulce nell’orecchio” sia esplicitare il vissuto emotivo che spesso resta implicito nel discorso.